Tribunale di Lecce. La responsabilità del danno è esclusa ove non si dimostri la dannosità dell’uso normale della cosa in custodia
La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, secondo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, è oggettivamente configurabile qualora la cosa custodita sia di per sé idonea a sprigionare un’energia o una dinamica interna alla sua struttura, tale da provocare il danno, mentre qualora per contro si tratti di cosa di per sé statica e inerte – come nel caso di specie – e richieda che l’agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presenti peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.
Il Tribunale civile di Lecce – Prima Sezione civile – nella persona del giudice, dott.ssa Caterina Stasi, ha pronunciato, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., la seguente
da
, rappresentata e difesa dall’avv. ;
– attrice –
contro
Comune di G , rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Mellone;
– convenuto
e contro
A , rappresentata e difesa dall’avv. ;
– terza chiamata in causa –
Devesi pregiudizialmente rigettarsi l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dal Comune di G , in quanto per costante giurisprudenza, “la “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso” (ex multis, Cass. n. 14448/2008), attenendo, dunque, al merito dell’azione la questione in ordine al regime di responsabilità dell’AQP s.p.a. in ordine al tombino che insiste nella buca per cui è giudizio.
Quanto al merito, la domanda è infondata e non merita accoglimento.
Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità sul punto, “l’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso” (Cass. n. 23919/2013), ed ancora: “in tema di danno da insidia stradale, quanto più la situazione di pericolo connessa alla struttura o alle pertinenze della strada pubblica è suscettibile di essere prevista e superata dall’utente-danneggiato con l’adozione di normali cautele, tanto più rilevante deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nella produzione del danno, fino a rendere possibile che il suo contegno interrompa il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell’ente proprietario della strada e l’evento dannoso” (Cass. n. 287/2015).
È utile ricordare inoltre che, per l’interpretazione oramai consolidata dei giudici di piazza Cavour, “in tema di responsabilità della P.A. per danni da beni demaniali, qualora non sia applicabile la disciplina dell’art. 2051 cod. civ., in quanto sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia sul bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni subiti dall’utente secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., sicché in tal caso, ove il danneggiato abbia provato l’anomalia del bene demaniale (come, ad esempio, della strada), che costituisce fatto di per sé idoneo, in linea di principio, a configurare il comportamento colposo della P.A., ricade su quest’ultima l’onere della prova di fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità per l’utente di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia” (Cass. n. 12821/2015), ribadendo “il principio secondo cui, ricorrendo la fattispecie della responsabilità da cosa in custodia, il comportamento colposo del danneggiato può – in base ad un ordine crescente di gravità – o atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ.), ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode (integrando gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell’art. 2051 cod. civ.), deve a maggiore ragione valere ove si inquadri la fattispecie del danno da insidia stradale nella previsione di cui all’art. 2043 cod. civ.” (Cass. n. 999/2014).
Nel caso sub iudice le testimonianze assunte – in particolare per mezzo dei testi – hanno confermato che la caduta dell’attrice sia avvenuta nelle circostanze di tempo e di spazio dalla medesima allegate, riferendo che la caduta della P fosse avvenuta la mattina del alle ore 9.30 circa mentre l’attrice attraversava via P in C, all’altezza del civico n. , a causa della buca presente sul manto stradale ove, come viene rappresentato con i rilievi fotografici agli atti, era ubicato un tombino dell’impianto idrico; tale avvallamento è stato riconosciuto e descritto anche dal testimone M S, dipendente del Comune convenuto, incaricato dall’ente territoriale di effettuare il sopralluogo sui luoghi di causa.
Le caratteristiche della buca, ad ogni modo, si evincono agevolmente dalla lettura della relazione all’esito del sopralluogo esperito dal settore LL.PP. dell’ente pubblico (all. 6 parte convenuta), laddove si legge che “il maggior dissesto insiste proprio intorno a detta saracinesca (sensibilmente sporgente rispetto alla quota stradale)”, intendendosi per saracinesca una struttura della rete idrica, ovvero l’area dove insiste il tombino rappresentato nelle fotografie agli atti e come pure riferito dal Maresciallo M, sentito come testimone durante la fase istruttoria, che redasse il verbale di sopralluogo del
Tuttavia, non può non assumere preminente rilievo – sia che si individui la causa petendi della presente domanda nella violazione dell’art. 2043 c.c., sia dell’art. 2051 c.c., come il Tribunale, uniformandosi alla più recente giurisprudenza, ritiene di fare – la circostanza che l’incidente dell’attrice ha avuto luogo presso la cittadina salentina in pieno orario diurno, allorquando la visibilità dei luoghi era ottimale, ed il manto stradale, nel tratto in questione, si presentasse notevolmente dissestato.
Come si è detto, la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, secondo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, è oggettivamente configurabile qualora la cosa custodita sia di per sé idonea a sprigionare un’energia o una dinamica interna alla sua struttura, tale da provocare il danno, mentre qualora per contro si tratti di cosa di per sé statica e inerte – come nel caso di specie – e richieda che l’agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presenti peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione (Cass. n. 6306/2013).
L’istruttoria espletata, ovvero i rilievi fotografici agli atti, unitamente alle prove testimoniali raccolte, ha dimostrato, da un lato, le dimensioni della buca e l’astratta inidoneità della medesima a costituire fonte di pericolo e di insidia, e, dall’altro lato, le specifiche circostanze di tempo e di spazio che non valgono a rendere immune da censure l’agere della Pe, non potendosi escludere nella specie l’applicazione del principio di autoresponsabilità vigente nel nostro ordinamento giuridico.
Difatti, osservando le fotografie versate agli atti del procedimento, la buca intorno al tombino presenta un’estesa dimensione, spiccando per il diverso colore (grigio chiaro) rispetto al resto della strada, nonché per ampiezza, avendo un diametro di almeno trenta centimetri, e per profondità, oltre che per la presenza di pietrisco e di detriti al suo interno, ciò che la rendevano visibile da ambo i lati della strada (come si può notare soprattutto nel fotogramma all. 38 al fascicolo della P, tenuto conto delle particolari condizioni personali e di età dell’attrice, all’epoca settantaduenne, che, peraltro, è risultata risiedere nelle immediate vicinanze dei luoghi per cui è giudizio.
Ne discende che la buca medesima poteva risultare ben visibile all’utente della pubblica via in un’ora caratterizzata dalla piena esposizione alla luce diurna, trovandosi pressoché al margine di una strada dal manto stradale uniforme fino alle immediate vicinanze della buca in questione, la quale ben si distingueva sul terreno circostante proprio per la presenza del rattoppo subito prima – nel senso di attraversamento percorso dalla P – nonché del tombino medesimo del pietrisco e della sconnessione dell’asfalto poco più oltre, potendosene insomma valutare con sufficiente prevedibilità la consistenza e la profondità.
Si deve pertanto concludere che l’evento dannoso, e di conseguenza il danno subito dall’attrice, siano ascrivibili esclusivamente al comportamento imperito di Perrone Luce, in base al principio di autoresponsabilità sopra citato, che ha eliso il nesso causale tra cosa e danno.
In ossequio al principio della soccombenza, P deve essere altresì onerata della rifusione delle spese di lite sostenute dal Comune di e da Acquedotto ., liquidate come da dispositivo ai sensi del D.M. n. 55/2014 in considerazione delle attività concretamente espletate; le spese di c.t.u., liquidate nel corso del giudizio, sono poste definitivamente a carico di parte attrice.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando,
– rigetta la domanda;
– condanna P alla rifusione delle spese di lite sostenute dal Comune e dal terzo chiamato in causa, liquidate complessivamente in € 3.600,00 per il primo ed € 3.600,00 oltre al rimborso al 15% delle spese forfettarie, iva e cap come per legge;
– pone a carico dell’attrice le spese di c.t.u. liquidate con decreto emesso nel corso di giudizio.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza.
Lecce, 9 aprile 2019
Il giudice
Caterina Stasi